CONGREGAZIONE OPERAIO DEL DUEMILA

Bertinotti all’asta: il comunista che mise in vendita Mao

C’è chi ha venduto la propria ideologia, chi la tessera del partito, chi la giacca di velluto a coste. E poi c’è chi, come Fausto Bertinotti, ha deciso di vendere direttamente Mao. Non quello in carne e ossa, ma quello in serigrafia, immortalato da Andy Warhol a colpi di vernice pop, l’icona capitalista che più capitalista non si può.

foto archivio repertorio LaPresse

Dite la verità: ve l’aspettavate che il paladino del proletariato, il presidente della Camera che tuonava contro i padroni e i salotti buoni, fosse seduto in casa con opere da centinaia di migliaia di euro appese alle pareti? No, perché nell’immaginario collettivo il comunista doveva vivere tra falci arrugginite, fotografie di Che Guevara e bandiere rosse scolorite. Invece Fausto, nelle sue stanze, aveva Warhol, Dorazio e perfino la cara Giosetta Fioroni. Altro che falce e martello: era più vicino a martello da galleria d’aste.


Il proletario del pop art

La cosa bella – e qui la satira diventa irresistibile – è la giustificazione: “Ho bisogno di soldi”.

Ecco, immaginiamo i minatori del Sulcis o gli operai dell’ILVA che sentono la stessa frase. Ma loro non hanno Warhol da piazzare. Al massimo, possono rivendere il motorino usato. Bertinotti invece sì: lui ha Mao in formato pop, Mao con la bocca fucsia e la guancia arancione. Insomma, la rivoluzione sì, ma in technicolor.


Il dogma comunista (rivisitato in versione Sotheby’s)

Il paradosso è servito: per decenni il dogma comunista ci ha spiegato che “la proprietà privata è un furto”. Ma si vede che il furto diventa accettabile se si tratta di un quadro firmato Warhol. Forse Marx non aveva previsto la voce “collezione d’arte contemporanea” nel Capitale.

L’uguaglianza, quella vera, funziona benissimo… fino a quando non si parla di mettere all’asta il proprio patrimonio artistico e portare a casa milioni. A quel punto, anche il più rivoluzionario dei compagni si trasforma nel più elegante dei borghesi, giacca sartoriale e sorriso da battitore d’asta.


Compagni, vi presento il capitale

E allora il popolo guarda, sorride amaro e mormora: “Ecco i comunisti, quelli che predicano sobrietà e vivono da collezionisti”. Perché il problema non è che Bertinotti abbia opere d’arte – Dio ce ne scampi – ma che per anni abbia incarnato la retorica dell’uomo contro il lusso, contro il privilegio, contro le élite. E alla fine eccolo lì, proprio dentro le élite che criticava, a vendere Mao come fosse un gadget da mercatino.
È la perfetta incarnazione del detto: “Fate come dico, non come vivo”. Il proletario doveva accontentarsi della tuta blu, mentre il leader poteva guardarsi Mao in technicolor dal divano.


L’asta come nuova rivoluzione

Così, in un’Italia in cui i lavoratori veri stringono la cinghia, il comunista che doveva guidarli verso il sol dell’avvenire adesso li guida verso Christie’s e Finarte. Non più falci e martelli, ma cataloghi patinati e offerte al rialzo.
E se un tempo Bertinotti urlava “Proletari di tutto il mondo unitevi!”, oggi potrebbe serenamente dire: “Collezionisti di tutto il mondo, fate la vostra offerta!”.


Epilogo: il compagno Warhol

Forse dovremmo ringraziarlo. Perché alla fine, Bertinotti ci ha mostrato la verità più semplice: il comunismo funziona benissimo… finché resta nelle parole. Nella pratica, serve un Warhol in salotto.
Un Warhol che puoi vendere quando hai bisogno di soldi. Un Warhol che ti ricorda che, alla fine, il Capitale non è solo un libro di Marx, ma il risultato di un’asta ben riuscita. E allora sì: viva la rivoluzione. Quella con bandiera rossa… battuta al martelletto.
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