![]() |
| Fabio Orlando |
Un vecchio furgone come palco, la voce rotta dell’emozione che si arrampica sulle parole: «Un momento d’attenzione!». Il brusio si spegne, i cori si smorzano. Gli striscioni, impregnati di pioggia e sudore, tremano nelle mani callose degli operai. Poi la frase che cambia tutto: «Il licenziamento sarà convertito in un provvedimento disciplinare». Un urlo si alza dalla folla, poi un altro, e un altro ancora, finché l’intero presidio esplode in lacrime. Le lacrime della dignità.
Fabio Orlando, 50 anni, operaio della Deloro Microfusione di Fizzonasco, piange. Ma questa volta non è dolore. È liberazione. È giustizia. È umanità che vince su burocrazia. È la sua famiglia che lo stringe forte. È la voce di suo figlio che gli sussurra: «Ce l’abbiamo fatta, papà».
Fabio era stato licenziato per un presunto errore burocratico nell’uso dei permessi della Legge 104, quelli che gli servono per assistere sua moglie Chiara, 44 anni, affetta da una forma grave di epilessia. Ma lui non si è piegato. Non ha chinato la testa. E con lui, decine e decine di persone, molte delle quali nemmeno conosceva, hanno scelto di lottare.
Tanti, tantissimi. Gente che non sapeva nemmeno il mio nome. Colleghi di altre aziende, operai, impiegati, donne, uomini. Persino i dipendenti della multinazionale dove lavora mia moglie. Tutti con me. Tutti con noi. È successo qualcosa di raro: una comunità si è sollevata. Perché il mio caso è diventato il simbolo di una fragilità più grande, di un sistema che spesso non guarda in faccia le persone.
Dietro a quel licenziamento, infatti, c’è una storia che scava nel cuore. Quella di Chiara, mamma, lavoratrice, malata. E combattente.
Soffro di epilessia – racconta –. Ma non potevo restare zitta. Sono stata davanti ai cancelli, ho urlato, ho suonato i campanacci, ho dato voce alla verità. Anche se le emozioni mi fanno male, anche se devo proteggerle, ho deciso di espormi. Perché mio marito non ha fatto nulla di sbagliato. E io glielo dovevo.
Una donna minuta, ma con il coraggio di una leonessa. Una moglie che lotta per non diventare invisibile nella malattia. E un marito che da anni si fa carico della sua fragilità. «Chiara non può prendere i mezzi, non può guidare – spiega Fabio –. Quando lavora, può succedere che debba lasciare tutto di corsa. Io sono il suo riferimento. La porto alle visite, le do i farmaci, la aiuto a essere madre. Spesso corro a casa per un’emergenza, e per farlo uso i permessi della 104. È tutto documentato. Eppure, un errore formale ci ha fatto rischiare tutto.»
Un errore, sì. Ma a caro prezzo. Quattro giorni davanti ai cancelli dell’azienda. Quattro notti senza sonno. Quattro giorni in cui la speranza si alternava alla paura. Ma anche quattro giorni in cui la solidarietà si è fatta carne, abbraccio, applauso.
C’era persino chi ha perso ore di lavoro per stare con me. Alcuni colleghi si sono presentati con i figli. Mia madre portava il caffè a tutti. I miei suoceri, i vicini, persone che non vedevo da anni. E anche i Carabinieri e gli uomini della Digos presenti… li ho visti commossi quando hanno annunciato il mio reintegro.
A Fizzonasco, in questi giorni, non si è difeso solo un posto di lavoro. Si è difesa una storia. Una famiglia. Un diritto. Si è ricordato a tutti che dietro ogni firma, ogni cartellino, ogni numero di matricola, ci sono esseri umani. Con vite complesse, fragili, vere.
E quella di Fabio e Chiara è una vita fatta di corse, di lavatrici messe su in fretta, di piatti lavati tra una crisi e l’altra, di figli che imparano troppo presto a gestire la paura.
«All’inizio nostro figlio più piccolo scappava quando vedeva la mamma stare male. Non capiva. Aveva paura. Poi, poco a poco, ho provato a spiegargli. A dirgli che possiamo aiutarla, che non è un mostro, ma solo una mamma che ha bisogno di noi. Oggi, se capita, corrono a prendere una coperta, un cucchiaino. La accarezzano. Aspettano che passi.»
Oggi Fabio è tornato a casa. Ma domani tornerà al lavoro. Non da sconfitto. Non da vittima. Ma da testimone.
«È come fosse il mio primo giorno. Dopo 25 anni di fabbrica, torno con la stessa voglia di quando ho firmato il primo contratto. Non mi porterò rancore addosso. Questa deve restare una parentesi. Il mio obiettivo resta solo uno: proteggere la mia famiglia, restare lucido, restare padre e marito. Io sono come una nuvola, li guardo dall’alto, e quando vedo che stanno bene grazie a me, mi sento a posto.»
C’è una foto, scattata da qualcuno durante l’ultimo giorno di sciopero. Si vede Fabio abbracciato a suo fratello Luigi. Hanno gli occhi lucidi, le braccia che si stringono, e dietro di loro una scritta: “Non si licenzia la dignità”.
Ecco cosa resta di questa storia. La dignità. Di una famiglia che non si è piegata. Di una comunità che ha scelto di resistere. Di una donna che ha sfidato la sua malattia per difendere la verità. Di un operaio che ha pianto. Ma stavolta, di gioia.
“Siamo figli di un padre sindacalista – dice Fabio –. Da lui abbiamo imparato che i diritti si difendono. Sempre. E non solo i nostri. Ma anche quelli degli altri.”
Perché a volte basta una voce per non sentirsi soli. E a volte, quella voce diventa un coro. E quel coro cambia tutto.
