Ci sono storie che non appartengono solo alla cronaca industriale di un Paese, ma che si trasformano in miti collettivi, simboli di ciò che avremmo potuto essere. La vicenda della Olivetti è una di queste.
Non fu soltanto un’azienda di macchine da scrivere, calcolatrici e computer. Fu, piuttosto, un laboratorio di futuro, un luogo in cui tecnologia, cultura e giustizia sociale si intrecciarono fino a creare un modello che ancora oggi suscita meraviglia e nostalgia.
Il cuore di questo sogno batté a Ivrea, una cittadina piemontese che divenne, per qualche decennio, il centro di una rivoluzione silenziosa. Una rivoluzione che, purtroppo, il destino e le scelte politiche non seppero proteggere.
Le origini: il coraggio di Camillo
La storia comincia nel 1908, quando Camillo Olivetti, ingegnere torinese visionario, fondò a Ivrea la prima fabbrica italiana di macchine da scrivere. Aveva viaggiato negli Stati Uniti, dove aveva respirato il dinamismo dell’industria americana, e decise di importare in Italia quell’energia.
Nel 1911 nacque la M1, la prima macchina da scrivere interamente progettata e prodotta nel nostro Paese. Era un oggetto solido, elegante e funzionale: un piccolo miracolo industriale in un’Italia ancora agricola e povera di tecnologia.
Ma Camillo non poteva immaginare che il vero destino dell’impresa sarebbe stato tracciato dal figlio, Adriano.
Adriano Olivetti: il sognatore concreto
Quando Adriano prese le redini dell’azienda, negli anni ’30, portò dentro la fabbrica il peso della sua sensibilità intellettuale. Non era un imprenditore tradizionale: leggeva filosofi, dialogava con artisti, ascoltava gli operai.
Sognava una fabbrica che fosse prima di tutto comunità, un luogo in cui l’uomo non fosse schiacciato dal lavoro, ma valorizzato.
Ivrea, sotto la sua guida, cambiò volto. Accanto agli stabilimenti sorsero case popolari moderne, scuole, biblioteche, un ospedale aziendale, mense, colonie estive per i figli dei dipendenti. L’architettura stessa parlava la lingua del benessere: edifici luminosi, spazi verdi, linee essenziali. Figini e Pollini, grandi architetti del tempo, progettarono stabilimenti che sembravano quasi templi della modernità.
Per Adriano, la produttività non era solo questione di numeri: era anche frutto di un ambiente umano e dignitoso. Nel 1955 arrivò perfino a sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro, molto prima che si parlasse di “work-life balance”.
I gioielli del design e della tecnologia
La Olivetti non era solo attenzione sociale. Era anche avanguardia tecnologica e bellezza estetica.
- La Lettera 22 (1950), piccola macchina da scrivere portatile, conquistò giornalisti, scrittori e intellettuali. Indro Montanelli non se ne separava mai. Leggera e compatta, divenne un’icona di libertà intellettuale. Oggi è custodita al MoMA di New York.
- La Lexikon 80, destinata agli uffici, fu una macchina robusta, funzionale, adottata in mezzo mondo.
- Le calcolatrici Divisumma furono una rivoluzione per la loro eleganza e precisione.
- L’Elea 9003 (1959), progettata da Mario Tchou, segnò la storia: il primo computer commerciale a transistor costruito in Europa. L’Italia, per un attimo, fu all’avanguardia mondiale dell’informatica.
Dietro queste creazioni non c’era solo ingegneria, ma anche arte e design. Marcello Nizzoli, Ettore Sottsass, Franco Albini contribuirono a rendere le macchine Olivetti non solo strumenti di lavoro, ma veri e propri oggetti d’arte industriale.
Una fabbrica che era anche cultura
A Ivrea si respirava qualcosa di unico. Le pareti degli uffici custodivano quadri e manifesti d’avanguardia, la biblioteca aziendale offriva ai dipendenti libri e giornali. Gli operai erano incoraggiati a studiare, a crescere culturalmente.
Olivetti pubblicava riviste interne, organizzava mostre, finanziava iniziative artistiche. La fabbrica era un cuore pulsante di vita sociale e culturale. Era un modo di intendere l’impresa come bene comune, un progetto che travalicava i cancelli dello stabilimento.
Il sogno interrotto
Ma ogni sogno ha il suo punto di fragilità.
Il 27 febbraio 1960, Adriano Olivetti morì improvvisamente su un treno diretto in Svizzera. Una perdita immensa. L’anno successivo, in circostanze mai del tutto chiarite, perse la vita anche Mario Tchou, l’uomo a cui era stata affidata la rivoluzione elettronica.In pochi mesi, la Olivetti si ritrovò orfana dei suoi due grandi visionari.
L’Italia non era pronta a sostenere quella sfida: i politici e gli industriali del tempo non compresero la portata storica del progetto. Nel 1964 la divisione elettronica fu ceduta a General Electric. Una decisione che oggi appare come una ferita aperta nella storia del nostro Paese. Se la Olivetti avesse proseguito in quel cammino, forse l’Italia sarebbe stata tra le potenze mondiali dell’informatica. Ma la storia prese un’altra direzione.
Declino e memoria
Negli anni successivi, la Olivetti continuò a produrre macchine da scrivere e personal computer, come il celebre M24, ma l’aura pionieristica era svanita.
La globalizzazione, la concorrenza giapponese e americana, e scelte interne poco lungimiranti portarono al declino. Negli anni ’90 il marchio si trasformò in altro, finendo infine nell’orbita del gruppo TIM. Eppure, il mito non è morto.
Ivrea, con i suoi stabilimenti, le sue case operaie, le sue scuole aziendali, è oggi Patrimonio Unesco. Non solo come memoria architettonica, ma come simbolo di un’utopia che, per un attimo, fu reale.
L’eredità di Adriano
Oggi, rileggendo quella vicenda, resta la nostalgia di ciò che poteva essere. Ma resta soprattutto una lezione immortale: l’impresa non è solo profitto, è anche responsabilità sociale.
Adriano Olivetti lo disse chiaramente:
“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia.”
Parole che risuonano ancora oggi, in un mondo in cui il lavoro spesso torna a essere sfruttamento e alienazione. Forse è proprio nella memoria di Ivrea, tra i muri delle vecchie officine e le macchine da scrivere esposte nei musei, che possiamo ritrovare una bussola per il futuro: la consapevolezza che un altro modo di fare impresa è stato possibile, e potrebbe esserlo ancora.

